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Giorgetti avverte da tempo: «Con questa natalità nessuna riforma regge». Ecco perché il governo ha allo studio esoneri contributivi per chi resta a lavorare, sulla scia del «Bonus Maroni», per chi va in pensione presto come le forze dell’ordine

L’inverno demografico e le sue conseguenze socio-economiche non sono un problema che riguarderà solo il prossimo futuro. La crisi delle nascite in Italia ha ricadute già in questo nostro presente. E la soluzione non può essere continuare a procastinare il problema o metterlo in secondo piano rispetto ai facili quanto irrealistici slogan elettorali che promettono a ogni tornata che si andrà tutti in pensione e presto. La cruda verità l’ha illustrata il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, al Meeting di Rimini: nei prossimi 15 anni l’Italia perderà per la denatalità 5,5 milioni di lavoratori. Le aziende, dunque, vedranno peggiorare la loro già faticosa ricerca di manodopera. E se calano le persone in età lavorativa calano anche le entrate per lo Stato, quelle entrate necessarie ad assicurare un futuro pensionistico alle nuove generazioni. 

L’effetto denatalità

Considerando che il ricambio generazionale richiederebbe che ogni coppia italiana mettesse al mondo almeno due figli, e considerando per contro che non tutte le coppie sono disposte a dare un fratellino al loro figlio unico e che i single sono in aumento, diventa chiaro che, accanto agli incentivi alla natalità, è necessario avviare una seria politica di gestione e incentivo al flusso migratorio dai Paesi extra-europei. Del resto, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti è da tempo piuttosto onesto su questo punto: «Nessuna riforma previdenziale tiene con questa natalità».




















































Obiettivo: disincentivare i prepensionamenti

Nell’attesa che i partiti (compresi quelli della maggioranza) decidano di parlare chiaro ai propri elettori, abbandonando le facili promesse acchiappa-voti, il governo sta provando a correre ai ripari perseguendo un obiettivo: disincentivare le uscite dal mondo dal lavoro e per il tempo più lungo possibile. Ma come? Per ridurre i prepensionamenti da una parte e incentivare a rimanere al lavoro dall’altra, occorre convincere la gente a posticipare il meritato riposo dandole buone ragioni economiche per farlo. Così come era accaduto l’anno scorso, quando per il 2024 è stato rispolverato il «Bonus Maroni» rivolto a chi, rinunciando a salire sul treno del prepensionamento di Quota 103, si vede dirottato in busta paga l’accredito contributivo (ovvero la quota normalmente a carico del lavoratore). Per dirla in altro modo: il bonus è un esonero dai contributi a carico del dipendente pari al 9,19% per il privato e 8,80% per il pubblico, che di fatto va ad aumentare lo stipendio netto senza particolari costi per lo Stato.

Come pensa di muoversi il governo per evitare i prepensionamenti

Quota 103 scade con la fine dell’anno. Qualora venisse prorogata ancora per tutto il 2025, la prima ipotesi sul tavolo del governo, e che avrebbe già l’avvallo di Giorgetti, sarebbe quella di proseguire con il «Bonus Maroni» per chi, compiuti i 62 anni e maturato i 41 anni di contributi decida di non accedere allo scivolo pensionistico della quota e resti al lavoro. Chi sceglie di lavorare di più, dunque, guadagnerebbe di più. Un’ipotesi alternativa alla precedente, soprattutto se finisse il sistema delle quote, parla invece di una maggiorazione del valore dei contributi versati all’Inps a partire da una determinata età. In questo caso, il risultato sarebbe quello di ottenere, arrivati alla pensione ordinaria, un assegno più alto.

Ipotesi nuovi bonus: a chi potrebbero essere rivolti 

Da giorni si sta parlando anche di nuovi possibili bonus riferiti a  categorie specifiche di lavoratori, come era stato fatto l’anno scorso per i medici (il cui limite d’età pensionabile, tra l’altro, è stato innalzato a 72 anni). In particolare, sono state citate le forze dell’ordine, che vanno tutte in pensione, secondo le regole attuali, abbastanza presto. La pensione ordinaria per i militari e poliziotti, infatti, si ottiene al raggiungimento dei 60 anni di età per  sottufficiali e truppa, mentre si può arrivare fino a 65 anni per gli ufficiali e i dirigenti, a seconda del grado (inoltre è necessario aver versato almeno 20 anni di contributi). Per prolungare dunque la loro vita lavorativa il governo potrebbe introdurre sgravi contributivi o bonus e aumentare così il loro stipendio netto.

Il destino di Quota 103

Come detto nel paragrafo precedente, sul versante dei prepensionamenti, con la fine del 2024 scadono Quota 103, Opzione donna e Ape sociale. Tra i commentatori, diversi hanno parlato di fine del sistema delle quote, nonostante la Lega prema per sostituire Quota 103 con Quota 41 «light» (uscita con 41 anni di contributi ma con il ricalcolo contributivo e, dunque, un assegno più basso). È davvero così? Nel tempo gli aggiornamenti successivi di Quota 100 sono stati resi via via sempre più difficili, pieni di paletti e soprattutto con tali tagli all’assegno (fino al compimento dei 67 anni di età, ovvero l’età per la pensione ordinaria, l’assegno non può superare i 2.400 lordi mensili) che ormai il numero di lavoratori che ne usufruiscono si è ridotto a numeri quasi irrisori (secondo l’Ansa, le domande presentate per il 2024 sono solo 7mila rispetto alle 17mila che erano state previste in sede di legge di Bilancio). Stesso discorso per Opzione donna, causa l’introduzione da parte del governo Meloni di molte limitazioni che rendono più conveniente lavorare ancora un poco e accedere al prepensionamento ordinario con un assegno più alto. Alla luce di tutto questo, rinnovare anche per il 2025 Opzione donna e Ape, ma anche Quota 103, non costerebbe molto al bilancio pubblico. Dunque, la proroga ora sembra più probabile.


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25 agosto 2024

 

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