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Secondo i dati della Banca d’Italia, il debito pubblico è cresciuto in un mese di 30 miliardi. Metà di questa crescita si deve ad un aumento del fabbisogno delle amministrazioni centrali, che non riescono a contenere la crescita del disavanzo nonostante un aumento significativo delle entrate tributarie. Il resto dipende da fattori di mercato che sfuggono al controllo dell’amministrazione. Dunque, le spese corrono ancora più delle entrate e il debito continua a salire. Ciò accade proprio quando l’Europa ha attivato una procedura di infrazione per deficit eccessivo, un 7 per cento abbondante che ha allarmato e sorpreso gli analisti.

A settembre di quest’anno, il nostro governo dovrà presentare un piano di riduzione importante degli squilibri di bilancio in un intervallo di tempo compreso tra i 4 e i 7 anni. La buona notizia è che questo intervallo è relativamente ampio, e l’Europa si accontenta di imporre criteri di aggiustamento graduali, realistici e coerenti con la crescita economica. Le cattive notizie sono almeno due.

La prima è che le clausole di salvaguardia impongono una riduzione del debito dell’uno per cento all’anno. Per capire quanto sia ambiziosa questa misura, basta osservare che, tra il ’23 e il ’24, il nostro debito è cresciuto del 3,5%. La seconda cattiva notizia è che l’estensione dell’intervallo di aggiustamento da 4 a 7 anni è condizionata all’adozione di politiche pubbliche e riforme che aumentino il potenziale di crescita della nostra economia, soprattutto nel campo dell’energia, la transizione digitale e della difesa. A giudicare dalla difficoltà che incontra la coalizione di governo (e una parte dell’opposizione) ad adottare politiche incisive nel campo delle liberalizzazioni, della concorrenza e delle infrastrutture per energie rinnovabili, è prevedibile che la trattativa con l’Europa sarà piuttosto complicata.

La narrativa proposta all’opinione pubblica dal ministro Giorgetti sulla dinamica della finanza pubblica suggerisce che le difficoltà di contenere il disavanzo derivino quasi esclusivamente dall’incidenza sul fabbisogno dei bonus edilizi (soprattutto il famigerato 110%) ereditati dai governi precedenti.

Non vi è alcun dubbio che queste misure abbiano comportato un costo irragionevole per le casse dello Stato, destinato a pesare ancora per qualche tempo, ma le difficoltà per la finanza pubblica derivano anche da politiche fiscali che questo stesso governo ha deciso di adottare nel 2023 in via provvisoria (soprattutto sgravi contributivi e aggiustamenti delle aliquote) e che non sa ancora come confermare.

Secondo previsioni accreditate, la conferma di queste politiche vale circa venti miliardi all’anno nel prossimo triennio. Con una certa dose di irresponsabilità, alcuni membri del governo che si occupano di materie fiscali promettono ulteriori tagli alle imposte senza preoccuparsi di comunicare il modo in cui queste spese saranno coperte e senza alcun riferimento alla necessità di rispettare il patto di stabilità con l’Europa.

Non è difficile immaginare che la strada del rientro dal debito eccessivo sarà costellata di ulteriori ostacoli, come la necessità di rinnovare i contratti del settore pubblico, contenere la perdita del potere d’acquisto degli assegni pensionistici, evitare che l’aumento dei prezzi possa erodere il valore reale della spesa sociale e degli investimenti pubblici, i rischi legati all’impatto delle crisi internazionali sui mercati energetici.

Le politiche di contenimento del debito non sono certamente popolari, e ogni governo ha bisogno di mantenere, almeno in parte, le promesse fatte in campagna elettorale, che generalmente consistono in un alleggerimento della pressione fiscale o un aumento della spesa sociale. La stagione degli esecutivi giallo-verdi e giallo-rossi ha agito prevalentemente sul lato delle spese, che poi sono cresciute oltre le previsioni per effetto della pandemia.

Il governo Meloni sembra intenzionato ad agire prevalentemente sul lato delle entrate, con una limatura del reddito di cittadinanza. A suo favore gioca una congiuntura relativamente espansiva. Ma c’è il fondato rischio che queste misure possano essere riviste in uno scenario poco favorevole. La spesa sociale non è facilmente comprimibile, e potrebbe crescere in modo automatico se la dinamica del Pil dovesse deludere le attese. In ogni caso, i margini di intervento sono molto limitati, perché un paese con un debito di 3 mila miliardi di euro non si può permettere di spaventare gli investitori e affrontare un attacco speculativo.

Ogni punto percentuale di interessi sul debito può costare, nel lungo periodo, dai 20 ai 30 miliardi, più di quanto serve al governo Meloni per mantenere le promesse sugli sgravi fiscali. Oggi l’Europa ci chiede di elaborare un piano di rientro dal debito con un orizzonte temporale relativamente lungo, più della normale durata dei nostri esecutivi.

Se il governo e il Parlamento si impegnassero seriamente su un piano credibile e condiviso, impegnando anche i governi futuri, potrebbero raggiungere due obiettivi importanti. Il primo è rassicurare gli investitori e, in questo modo, metterci al riparo dalla speculazione e ridurre il differenziale di interessi rispetto alla Germania. Il secondo obiettivo è ridurre la spesa per interessi che oggi sottrae alle casse dello Stato quasi 100 miliardi di euro, per realizzare, nel futuro, quella riduzione della pressione fiscale (o aumento della spesa sociale) che oggi i nostri governi non riescono mai a realizzare.

 

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