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A giudicare dalla campagna elettorale, le elezioni europee sono servite a contare il peso relativo dei partiti all’interno delle due coalizioni, al governo e all’opposizione e a capire (forse) se la premier Meloni sta con i sovranisti o con i popolari. Delle politiche europee non si è parlato, né si è cercato di spiegare quale si vorrebbe fosse l’Europa del futuro.

Eppure, dalle elezioni scaturisce il prossimo Parlamento Europeo, che vara le direttive – sempre più fonte primaria della legislazione nazionale – e nominerà la Commissione, che detiene il potere esecutivo. E il nostro Governo sarà membro sia del Consiglio Europeo, formato dai capi di stato e di governo, che detta le direttive per la politica europea, sia del Consiglio dell’Unione Europea dove i vari ministri si riuniscono sui temi specifici.

La posta in gioco

È quindi l’intera governance dell’Europa, da cui dipenderanno le sorti anche degli italiani, a cambiare. Ma la campagna elettorale non è servita neppure a spiegare quali sono e come funzionano le istituzioni europee.

Forse le elezioni europee sono sempre state usate ai fini di politica nazionale, e l’Italia non è diversa dagli altri paesi. Ma questa volta la posta in gioco è alta perché c’è il rischio che il prossimo per l’Europa sia un “decennio perduto”, come si definì la stagnazione dell’economia giapponese degli anni Novanta.

L’economia europea ha superato il trauma della pandemia, ma il Pil dell’area è appena superiore a quello di quattro anni fa, e solo grazie al massiccio sostegno delle finanze pubbliche che in questo periodo hanno aumentato i consumi pubblici del nove per cento, mentre quelli privati sono rimasti piatti e gli investimenti sono inferiori del tre. E nel 2026 i soldi del Next Generation UE si esauriranno.

L’inflazione sta ritornando al due per cento, ma l’aumento nel livello dei prezzi, solo in parte compensato da maggiori salari, ha tagliato il potere di acquisto delle famiglie, impoverendole.

Il modello economico europeo, basato sull’industria e sulla crescita trainata dalle esportazioni, è in crisi. A differenza degli Stati Uniti dove prevalgono servizi e tecnologia, con margini e redditività più elevati, e i consumi privati sono il motore del Pil. Con l’esaurirsi della spinta della globalizzazione, e l’emergere dei rischi geopolitici, la Cina si è trasformata da mercato di sbocco a temibile concorrente per le imprese europee: in dieci anni le esportazioni cinesi verso l’Europa sono raddoppiate agli attuali 500 miliardi l’anno, a cui si aggiungono ingenti investimenti diretti.

Dall’altro lato, la dimensione e dinamicità del mercato americano, unitamente ai crediti di imposta con cui il governo sostiene la crescita, è diventato un magnete anche per gli investimenti delle aziende europee.

La guerra in Ucraina ha evidenziato la mancanza di una politica energetica europea e i costi della dipendenza dalle forniture a basso costo di gas russo, su cui l’Europa aveva fatto miope affidamento. Si è sottovalutato l’enorme costo della transizione ambientale che i cittadini europei non sono disposti a pagare, e dei massicci investimenti necessari a costruire un’economia verde, oltre a quelli per la difesa che la mutata geopolitica impone. Con il crollo della natalità in Europa (da 4,7 milioni di neonati del 2008 a 3,8 del 2022) si prospetta un inverno demografico con l’aumento dei costi di sanità, previdenza e assistenza che graveranno su una popolazione lavoratrice sempre più esigua.

L’Europa ha già perso competitività: dal 2000 la produttività in Francia ha perso il 10 per cento rispetto agli Usa, il 14 in Germania e il 22 in Italia; un divario destinato ad aggravarsi in assenza di un progetto di rilancio dell’economia europea. Ma senza un aumento della produttività – per incrementare il reddito pro capite nel lungo periodo – le finanze pubbliche diventano insostenibili, penalizzando il welfare e causando tensioni sociali che, a propria volta rallentano la crescita in un circolo vizioso: è lo spettro del decennio perduto.

La rimonta possibile

Il declino non è inevitabile. Nell’estate del 2020, con l’economia devastata dalla pandemia, l’Europa aveva lanciato il Next Generation UE: un grande programma comunitario da 750 miliardi per rilanciare l’economia, finanziato con la mutualizzazione del debito degli stati sovrani. Svanito lo slancio, il programma si concluderà nel 2026 e non sembra avrà seguito.

Invece, bisognerebbe riprendere lo slancio per due grandi programmi: la transizione ambientale e la difesa comune, finanziati con emissioni di debito comunitario. L’integrazione economica europea e la difesa di confini impongono investimenti nell’ambiente e nella difesa concordati e finanziati a livello europeo per le ovvie economie di scala e di scopo, e perché, se lasciati all’iniziativa dei singoli paesi, aumenterebbero le disuguaglianze all’interno dell’Unione che mai come ora ha avuto bisogno di coesione.

Le barriere tariffarie non sono la strada giusta per proteggere l’industria europea dalla competizione cinese: in una guerra commerciale l’Europa avrebbe la peggio, data l’importanza del mercato cinese per l’export e gli investimenti delle aziende europee; il livello di integrazione tra le due aree; e la riduzione dell’incentivo per le aziende europee a innovare e competere.

Meglio sostenere gli investimenti per l’innovazione con crediti di imposta e finanziamenti pubblici mirati, specie per la transizione ambientale e la rivoluzione tecnologica. Ma questo richiederebbe un ripensamento dei divieti agli aiuti di Stato, ormai obsoleti.

Fusioni bancarie

Il maggior contributo alla competitività dell’Europa può solo venire dalla realizzazione di un vero mercato unico dei capitali, oggi frammentato, per far fronte alla mutata struttura economica mondiale, e alla carenza di grandi imprese capaci di reggere la concorrenza americana e cinese. All’Europa non mancano le iniziative imprenditoriali, ma la capacità di farle crescere fino a diventare grandi abbastanza da reggere la concorrenza globale. Ma non ci possono essere grandi imprese senza un grande mercato dei capitali.

La regolamentazione bancaria è unica ma le fusioni bancarie transfrontaliere restano una chimera perché i governi non vogliono che i depositi dei propri cittadini finanzino investimenti rischiosi in altri paesi, che per i tedeschi sono i titoli di stato italiani e per noi sono i derivati delle banche tedesche e francesi.

Il debito emesso dalla Commissione europea per finanziare programmi comuni per l’ambiente e la difesa, come fu fatto per il Covid, avrebbe il vantaggio di creare “un titolo di stato europeo” privo di rischio, comune a tutte le banche, rimuovendo forse il principale ostacolo all’unione bancaria.

A differenza degli Stati Uniti, il mercato dei capitali europeo è frammentato in tante Borse, mercati telematici, casse di compensazione, e altrettante normative e leggi fallimentari; e l’architettura degli scambi richiede ancora due giorni per completare una transazione, quando negli Usa basta un giorno, e i sistemi decentralizzati permetterebbero scambi istantanei. Mancano gli incentivi in Europa per gli investitori istituzionali a investire in capitale di rischio, oltre una regolamentazione eccessivamente onerosa. Così l’Europa conta per solo per il 10 per cento del venture capital mondiale, contro il 43 di Stati Uniti e Cina.

L’eccessiva frammentazione delle imprese europee è anche dovuta a una politica antitrust non più adeguata: il mercato rilevante in molti settori è diventato il mercato unico europeo (vedi telecomunicazioni e banche) o il mondo (vedi difesa ed energia). Inoltre, nelle fusioni tra le tante società dove gli Stati sono azionisti, le logiche nazionalistiche dei governi prevalgono sugli interessi economici trasformando questioni di efficienza in temi di sovranità nazionale.

Purtroppo, la politica in Europa vive dello scontro tra più Europa o più nazionalismo quando, invece, l’integrazione europea è una questione puramente economica nell’interesse dei cittadini di tutte le inclinazioni politiche. In questo modo rischiamo di condannarci a un decennio perduto.

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